NORD-SUD IN BIANCO – 27 FEBBRAIO 2013

Un viaggio nell’Italia dei grandi vini bianchi dalla Valle d’Aosta alla Sicilia.

Meglio quelli del Nord o quelli del Sud? Se non altro diversi, verrebbe da dire, stando a colore, profumi, struttura, terroir. Perlomeno fino a prima che cominciasse la nostra serata, nel corso della quale molte certezze sono saltate e non è stato per nulla scontato distinguere quali fossero i vini bianchi del Nord e quali provenissero invece dalle regioni del Sud, come ampiamente dimostrato dalle risposte indicate dalla nostra platea (a parte un Carlo in serata di grazia che ne ha indovinati ben 6 su 8).

Formula vincente non si cambia e quindi la serata ha ripetuto l’impostazione in stile Champions League tanto apprezzata in occasione del precedente appuntamento “Italia-Francia in rosso”: primo giro di degustazioni alla cieca e senza alcuna informazione sui vini, in sfide a sorteggio un vino del Nord e uno del Sud, con eliminazione diretta e qualificazione al turno successivo per il vincitore, fino alla finalissima.

Unico criterio per scegliere – come sempre si fa alle serate di Viva il Vino –  l’emozione, quella sensazione del tutto soggettiva che ogni vino trasmette a chi lo beve, a prescindere dalle analisi sensoriali.

Come da tradizione, in campo sono scesi dei vini di indubbia qualità, perché a prescindere dalla formula ludica, il nostro fine è presentare alcune delle migliori produzioni che l’Italia offre, spesso sconosciute al consumatore medio.

Ecco che allora a rappresentare il Nord abbiamo chiamato il valdostano Chardonnay Cuvèe Bois di Les Cretes, l’alto atesino Sylvaner R di Kofererhof, il veneto Soave Salvarenza di Gini e il Friulano di Tenuta La Ponca.

Per il Sud invece il Fiorduva di Marisa Cuomo, Costa d’Amalfi, l’abruzzese Trebbiano Vigneto di Popoli di Valle Reale, il siciliano Carjcanti di Gulfi e un altro isolano, Jankara, Vermentino di Gallura, Sardegna, di Spanu.

Dopo il sorteggio pubblico, che risulterà decisivo per le sorti dei vini nell’ambito della sfida, i presenti hanno iniziato le degustazioni comparate due a due, decretando in base alle proprie emozioni che lo Chardonnay di Les Cretes dovesse avere la meglio sul Carjcanti siciliano, il Fiorduva della Cuomo prevalere sul Friulano La Ponca, così come il Sylvaner R Koferherhof sull’abruzzese Trebbiano Valle Reale, mentre nella sfida che più di tutte ha spaccato la platea il Soave di Gini ha avuto la meglio di un soffio sul Vermentino Jankara.

Semifinali altrettanto equilibrate: il Fiorduva ha prevalso su Les Cretes (una finale anticipata l’hanno definita in tanti) mentre il Sylvaner altoatesino ha avuto la meglio sul Soave di Gini in un vero e proprio derby del Nord-Est.

Finalissima Nord-Sud dunque, con il Fiorduva di Marisa Cuomo considerato dalla platea il vino emozione dopo una sfida comunque equilibrata con il Sylvaner R di Koferherhof.

Ma se il vino della serata è stato del Sud, sommando invece i punti in base alle singole sfide, la vittoria è andata al Nord, che ha occupato ben tre dei primi quattro posti della graduatoria, ma non il gradino più alto del podio.

Questo per quanto riguarda l’aspetto ludico-competitivo della serata, che – come amiamo sottolineare – resta un gioco perché darebbe verdetti diversi ogni volta, ripetendo le sfide persino a distanza di pochi minuti, tanto è soggettivo il giudizio nel scegliere un vino piuttosto che un altro quando in realtà si hanno davanti vini tutti così emozionanti, ambasciatori della qualità italiana.

E allora val la pena fare un secondo giro di degustazione, rimuovendo nel mentre la carta stagnola dalle bottiglie.

Cominciamo dalle stelle del Nord.

Lo Chardonnay Cuvèe Bois dell’azienda Les Cretes non lo scopriamo certo noi, anzi probabilmente qualche partecipante più scaltro se lo aspettava una volta letto che nel Team Nord ci sarebbe stato un vino valdostano. Stiamo parlando infatti di uno dei bianchi più celebrati del nostro Paese, ancor di più perché proveniente da una regione che in termini di quantità di produzione è invece marginale nello scenario del vigneto Italia.

La famiglia Charrere, che vede ora in prima linea anche le giovani figlie, da lungo tempo è ai vertici della produzione nazionale con questo Chardonnay dal colore giallo dorato che inganna, piacevolmente intenso al naso dove la frutta disidratata, i fiori di campo e l’eucalipto si mescolano con note più speziate e persino affumicate, frutto anche di una fermentazione e di una maturazione in legno; vino che anche al palato ci regala una estrema morbidezza frutto del passaggio in rovere, ma anche tanta sapidità e grande eleganza. Un vino che affina per ben 10 mesi sui lieviti riportati costantemente in superficie con la tecnica del batonnage, in maniera da contribuire ulteriormente a dare complessità a uno Chardonnay che non ha nulla da invidiare ai grandi di Borgogna.

Un vino del freddo che invece la stragrande maggioranza dei presenti ha ritenuto proveniente dal Sud Italia, cominciamo bene!

Un’altra area dove grazie anche ai terreni di origine calcareo vulcanica si producono alcuni dei bianchi di maggiore pregio del nostro Paese è quella di Soave, in quelle colline superato Verona che meritano una delle tante gite enologiche che l’Italia offre non solo perché confinanti con la più nota Valpolicella dell’Amarone. Sono davvero tanti i produttori di questa denominazione in grado di offrire emozioni coi loro vini bianchi e non è stato semplice sceglierne solo uno a far da portabandiera: alla fine – volendo andare sul sicuro – abbiamo proposto il Contrada Salvarenza della Famiglia Gini, da uve Garganega con una piccola percentuale di Trebbiano. Viti di 80 anni e una resa di soli 40 quintali per ettaro contribuiscono alla complessità di questo vino, che col naso ci riporta a note di cedro, genziana e a evidenti percezioni minerali classiche del terroir, che poi ritroviamo anche al gusto, dove la sapidità agrumata e il minerale ben contrastano una morbidezza quasi cremosa, frutto anche in questo caso di una vinificazione e di una maturazione in legno e a contatto coi propri lieviti. Non per nulla anche questo vino ha ingannato la platea che a maggioranza lo ha ricondotto alle regioni più calde del Sud.

Per trovare un vino veramente del freddo, siamo allora dovuti andare a selezionare la zona vitata più a Nord in assoluto del nostro Paese, a 46,5° di latitudine, quella di Varna e Novacella, in Alto Adige, altra meta consigliata per indimenticabili gite enologiche. Nei terreni proprio sopra la nota Abbazia sorgono infatti le vigne della Famiglia Kerschbaumer, proprietari anche di un validissimo ristorante tipico proprio all’interno dell’azienda, il che rende la gita ancora più gradevole!

Qui si coltivano vitigni tradizionali come il Sylvaner, il Riesling, il Kerner, che difficilmente troverete invece nelle zone più a sud dell’Alto Adige, quelle del lago di Caldaro per intenderci, dove sono gewurztraminer, sauvignon e chardonnay le uve bianche più coltivate.

E così alla nostra platea abbiamo proposto il Sylvaner R Koferherhof, di un colore giallo paglierino finalmente un pochino più nordico (e ci mancherebbe anche!). Note fruttate di susina, kiwi, nespole che poi danno spazio a una raffinata mineralità ritrovata anche al gusto, che anzi appare marcatamente sapido e con una bella freschezza, equilibrato però da una morbidezza già evidente, grazie probabilmente alla vinificazione e alla maturazione in legno: trattasi di botti grandi di acacia, proprio per non voler incidere in maniera eccessiva sulla struttura organolettica del vino. Apparso fin troppo perfetto, senza alcuna sbavatura, da pagina 432 del manuale “Come si fa un vino bianco perfetto”! Non per nulla è arrivato in finale, non per nulla questa volta una ampia maggioranza non solo ha indovinato che era del Nord, ma ha individuato anche la Regione di provenienza.

A completare il Team del Nord non poteva mancare la regione che forse nei vini bianchi esprime la qualità media più elevata, il Friuli Venezia Giulia. E qui non potevamo che scegliere la zona più eccellente, quella del Collio, caratterizzato dal tipico suolo calcareo detto “ponca”, da cui prende il nome anche l’azienda che abbiamo selezionato, la Tenuta La Ponca per l’appunto, piccola (solo 25.000 bottiglie in tutto) e giovane realtà che nel Collio sta acquistando rapidamente prestigio.

In degustazione il Friulano (quel vitigno che una volta si poteva chiamare Tocai), di un bel colore paglierino lucente e di sentori intensi ma eleganti come il biancospino, la mandorla, le pere williams. Decisamente strutturato invece al gusto dove emerge il corpo di un vino importante, minerale, sapido, ma anche piacevolmente caldo. Un vino che fermenta e affina in acciaio e che quindi si presenta varietale come nessun altro, senza ammettere correzioni strutturali dovute al legno. Un vino che se al primo turno non avesse subito incontrato il Fiorduva chissà dove sarebbe terminato nella nostra serata. Un vino che la platea anche in questo caso ha ritenuto marcatamente del Nord.

Altrettanto interessante è stata anche la selezione proveniente dalle Regioni del Sud.

Innanzitutto con il vino che più di tutti ha fatto discutere, spostando la degustazione sul tema di cosa ci si aspetta dai vini cosiddetti biodinamici. Stiamo parlando del Trebbiano d’Abruzzo Vigneto di Popoli di Valle Reale, definito il “trebbiano del freddo” per via del clima dell’altopiano dove si trova il vigneto, esposto alle correnti provenienti dal Gran Sasso e ben distante da quelli che invece crescono prossimi alla costa.

La falda acquifera sottostante i vigneti, da cui nasce una famosa acqua minerale, impedisce l’utilizzo di qualsiasi tecnica che non sia biologica, la forte escursione termica e la lenta maturazione permettono alle uve di avere qualità assoluta. E’ in quella vegetazione incontaminata che Leonardo Pizzolo ha riscontrato la validità dei lieviti indigeni, che danno vita a fermentazioni spontanee effettuate senza dover ricorrere a lieviti selezionati e senza operare il controllo della temperatura in vasche d’acciaio. Il colore velato nel bicchiere, frutto della non filtrazione, ovviamente ha portato tutti a valutare fin da subito in maniera diversa quel vino. Che è indubbiamente particolare sia per l’acidità e la sapidità marcata, quasi salmastra, sia per i sentori pungenti che fanno passare in secondo piano le note comunque agrumate. In bocca ha un’esuberanza scalpitante ancora lontana da ogni possibile equilibrio. Dovendo scegliere sulla base di un’emozione, in diversi sono rimasti folgorati da questa lontananza di omologazione rispetto ai sentori e ai gusti degli altri vini in degustazione. Ma probabilmente il contesto non era il più indicato per apprezzarlo, trattandosi di un vino così diverso da tutti gli altri, e che probabilmente necessita di un più lungo affinamento in bottiglia prima di esprimersi al meglio.

Dal vino della discussione a quello più acclamato della serata: ci spostiamo in Campania, terra di straordinari bianchi; ma non siamo andati dove tutti si sarebbero aspettati. Siamo invece a Furore, il non paese, in piena costiera amalfitana, vigneti a terrazza a picco sul mare, panorama fra i più belli al mondo, lavoro invece durissimo per coltivare quelle piante quasi secolari sui ripidi costoni, vero esempio di quella che viene definita viticoltura eroica. E’ qui che Marisa Cuomo e Andrea Ferraioli hanno dato vita a una bella azienda che produce anche una delle chicche più rilevanti dell’intera enologia italiana, quel Fiorduva – da noi proposto – che è diventato negli anni uno dei vini più celebrati dalla critica. Ricordo le prime bottiglie acquistate dalle mani di Marisa Cuomo, non avevo nemmeno ancora terminato il corso Ais, ma già avevo imparato ad apprezzare quanto fosse emozionante dialogare coi produttori visitando direttamente l’azienda, per poi lasciare affinare nella propria cantina quelle bottiglie che aperte a distanza di anni hanno un sapore pieno di ricordi speciali. E già all’epoca rimasi sorpreso nell’apprendere il nome dei vitigni da cui nasce il Fiorduva: 40% Ripoli, 30% Fenile, 30% Ginestra, altro che l’Italia degli autoctoni, questi qui non li avevo mai sentiti prima e alzi la mano chi dei presenti alla nostra serata li conosceva.  Colore ovviamente dorato, albicocca, pesca, agrumi, richiami di frutta esotica. In bocca il sorso è ricco, piacevolmente equilibrato, morbido ma nel contempo fresco e soprattutto sapido, quasi salmastro, con un finale molto persistente che riconduce agli stessi frutti sentiti al naso. Un vino prodotto con uve che vengono lasciate surmaturare sulla pianta per poi essere vinificate in barrique di rovere dove restano circa tre mesi. Platea questa volta praticamente unanime nell’identificare la provenienza dal Sud, ma la sola Valeria ha identificato la regione, nessun altro lo ha ricondotto alla Campania.

E’ un carricante quasi in purezza il terzo vino del Sud, proveniente dalla Sicilia e più precisamente dal Ragusano, zona dove è diffuso questo raro vitigno originario dell’Etna, coltivato anche alle quote più alte del vulcano. Abbiamo infatti proposto il Carjcanti dell’Azienda Gulfi, vinificato e affinato parte in acciaio e parte in legno: splendido colore dorato, naso fresco di mimosa e agrumi con sfumature minerali e persino più complesse come la cera, al gusto trova l’acidità a farla da padrone, conferendogli quella struttura e longevità che forse ora lo penalizzano lievemente, ma che ne fanno un vino particolarmente impegnativo in grado di reggere abbinamenti con piatti altrettanto strutturati. Anche in questo caso vino che disorienta la platea nel tentativo di dargli una provenienza, perché per i più è vino del Nord! E che nella sfida ha trovato la strada sbarrata dallo Chardonnay Cuvèe Bois.

Infine a chiudere la selezione degli otto grandi bianchi d’Italia non poteva mancare la Sardegna, con il suo vitigno autoctono di riferimento, il vermentino.

La scelta, come per il Friuli, è caduta non sui soliti noti celebrati dalla critica e acquistabili sugli scaffali di qualsiasi enoteca o supermercato, ma su una piccola realtà emergente, quella di una giovane coppia, Renato ed Angela Spanu, che ha creduto al sogno di realizzare un grande vino nella propria terra e nel 2006 ha acquistato 8 ettari di terreno vergine fra le colline dell’Alta Gallura, a 300 metri d’altezza a meno di mezzora dalle località più note della Costa Smeralda e nel 2008 ha impiantato i primi 4 ettari di vermentino, creando l’azienda Jankara.

Stiamo dunque parlando di un vino prodotto da una vigna che ha solo 4 anni di età e che già si presenta fra i più emozionanti di tutta la denominazione, tenete conto che spesso i produttori celebrano il fatto di produrre vini di qualità grazie a vecchie vigne che possono arrivare ad averne 70/80 di anni!

Cosa potrà diventare dunque in futuro Jankara? Non lo sappiamo, ma possiamo dire senza beneficio del dubbio che oggi rappresenta l’espressione dell’amore per il vino e per la propria terra degli Spanu, che al momento danno vita solo a questo Vermentino, prodotto con una resa bassissima, 40 quintali per ettaro, anche perché le piante per ora più di tanto non possono dare!

Un vino che fa tutto il suo percorso di fermentazione e affinamento in vasche d’acciaio e che si presenta pertanto con un colore paglierino e riflessi verdolini quasi nordici, regalandoci intensi profumi di mandarino, di fiori bianchi, di mandorla, di erba appena sfalciata. Una schiettezza ritrovata anche al gusto dove la pungente freschezza è evidente e pure accompagnata da una vivace sapidità, che ci regala un finale quasi amarognolo. Quello che doveva essere l’outsider ha rischiato di essere la sorpresa della serata perché pur opposto al primo turno da un sorteggio sfortunato al ben più noto Les Cretes valdostano che di passaggio in legno ne fa proprio tanto, ha comunque spaccato quasi a metà la platea, uscendo di scena per due soli voti, altro che unanimità di vedute!

La cosa divertente è che naturalmente anche questo vino per la maggioranza dei presenti è stato identificato come originario della parte d’Italia a cui invece non appartiene, a conferma che abbiamo davvero mischiato le carte bene o che in ogni caso non sono solo il clima e il sole a dare un imprinting al vino, ma determinanti risultano essere anche le caratteristiche del terreno e, forse, ancora di più le tecniche di vinificazione e maturazione: non è un caso se tutti i vini passati solo in acciaio sono stati ricondotti alle regioni del Nord, anche quando provenivano invece dalle regioni meridionali! E che viceversa sono stati definiti vini meridionali quelli che invece erano passati in legno, fatto salvo il Sylvaner, davvero troppo “nordico” per ingannare la nostra pur allegra combriccola.

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