CHARDONNAY – 25 gennaio 2012

Il terzo appuntamento della scorsa stagione di degustazioni dei vitigni nobili al Museo del Gusto è dedicato all’internazionale per eccellenza, il più diffuso al mondo, quello di più facile coltivazione e che meglio si adatta a climi e terreni diversi. Bianco o rosso? Bianco. Lo so che lo sapete tutti che stiamo parlando dello chardonnay, la serenità fatta bicchiere come dice Roberto Cipresso in Vinosofia, il vino che più vi allontanerà dai pensieri molesti della giornata per riportarvi in pace col mondo. E d’altronde: moderata acidità, aromi di frutta come mela e pera o anche pesca e frutta tropicale se proveniente da zone calde, poi ancora banana e burro, vaniglia e mandorla quando maturato in legno, fino ad arrivare al miele e altri sentori gradevoli quando evoluto qualche anno dopo essere stato imbottigliato. Come non metterlo fra le sensazioni più piacevoli che vorremmo provare da un bicchiere di vino?

Il rovescio della medaglia è che è il vino con meno personalità: si lascia molto plasmare dalle caratteristiche del luogo dove viene coltivato e dall’umore del viticoltore che potrà molto più che in altri casi riuscire a far emergere il proprio stile a seconda delle tecniche impiegate: una vinificazione solo in acciaio ci darà degli chardonnay dove le caratteristiche organolettiche del vitigno saranno quasi integre e dove sarà molto importante l’acidità al momento della vendemmia per non trovarci con vini piatti già in partenza. In ogni caso aspettiamoci dei vini bianchi spesso gradevoli ma più semplici e destinati a perdere nel giro di un paio d’anni qualità e vivacità.

Discorso completamente diverso se invece la vinificazione e ancor più la maturazione avviene in legno: in tale caso le caratteristiche dei profumi e del gusto riconducono ad aromi e sapori che pochi legami diretti hanno con l’uva, ma sono sicuramente più complessi e danno al vino una struttura tale che a volte sono necessari molti anni di invecchiamento prima che possa esprimersi al meglio.

Eppure stiamo parlando della stessa uva: pensate a quante differenze e quanto è determinante quindi il lavoro dell’uomo prima in vigna e poi in cantina . Ecco perché non si può banalizzare l’idea del vino pensato come l’uva spremuta dentro un tino e lasciata fermentare in maniera più o meno controllata fino a quando avrà smesso di ribollire e il succo si sarà trasformato in bevanda alcolica. Fino a quando questo concetto non sarà chiaro nel consumatore, non sarà nemmeno possibile fargli capire fino in fondo perché un vino può costare meno di un euro al litro e altri possono invece valere cento volte tanto.

Ma siccome stiamo divagando, torniamo alla nostra serata evento dove i partecipanti hanno avuto l’opportunità di degustare alcuni dei migliori chardonnay del nostro Paese (e quindi del mondo).

Non prima di una veloce carrellata non solo sulle caratteristiche a cui vi ho accennato sopra, ma anche su altri aspetti salienti del vitigno. A cominciare dal fatto che lo chardonnay non dà vita solo a vini bianchi secchi, ma è anche una delle uve più utilizzate per produrre vini spumanti: ovviamente champagne, la regione più a nord dove è coltivato questo vitigno, ma anche le nostre Franciacorta e Trentino.

Poi, parlando di geografia, è importante sapere che la terra d’eccellenza dello chardonnay è la Borgogna, da cui quindi non provengono solo alcuni dei più grandi vini rossi (vedi Sua Maestà, il Pinot Noir ), ma dove vengono prodotti anche i bianchi più importanti al mondo.

Lo Chablis, nel nord della Regione, dallo stile sicuramente più acido e dove l’utilizzo del legno non è in cima ai pensieri e poi quella striscia di venti km a sud di Beaune, nella Cote d’Or, dove è racchiusa la Terra Promessa dello chardonnay: la Cote de Beaune. Qui finezza ed eleganza sono uniche, arrivano da qui senza ombra di dubbio i vini bianchi più complessi e longevi al mondo, grazie anche a caratteristiche climatiche e del terreno davvero particolari e a un utilizzo del legno che rappresenta una costante.

Corton Charlemagne, Mersault, Montrachet sono nomi che fanno sognare gli appassionati e sconvolgono chi non è così addentro la materia quando si viene a sapere che le bottiglie provenienti dai Grand Cru e dai Premier Cru di questa micro-area possono partire da un minimo di 70/80 euro per arrivare a qualche migliaio nel caso dei produttori più noti e di annate speciali.

Lasciata la Francia e ribadito che lo chardonnay è impiantato in tutto il mondo, diciamo che i risultati migliori in altri Paesi sono stati raggiunti in Australia, Nuova Zelanda, Sud Africa, Stati Uniti.

Ed eccoci infine alla nostra Italia dove il vitigno è stato introdotto inizialmente in Tirolo, per poi diffondersi praticamente in tutte le Regioni, comprese quelle più calde.

I grandi chardonnay italiani arrivano dal Nord Est (Alto Adige e Friuli), dalleLanghe dove a molti produttori è servito come chiave di volta per farsi conoscere in mercati importanti come gli Stati Uniti prima di provare a vendere vini sicuramente più difficili come Barolo e Barbaresco, ma è parecchio diffuso anche nelle regioni del centro, spesso in assemblaggio coi vitigni della zona, fino ad arrivare allaSicilia, altra zona di eccellenza: chi mai l’avrebbe detto che un vitigno “nordico” potesse raggiungere siffatti risultati a quelle latitudini?

Ma quali sono le eccellenze selezionate da me e Silvana (uvaromatica.com) per far vivere una serata di Chardonnay di grandissimo spessore ?

Si comincia con una bollicina dall’aroma fruttato (mela renetta) e fragrante (lieviti). In bocca la pungenza delle bollicine è così elegante da evocare la nebbiolina: che sarà mai

questo metodo classico risultato così gradevole? E’ un Blanc de Blancs (cioè uve solo chardonnay) di Arunda Vivaldi, azienda che produce spumanti in Alto Adige a Meltina , sopra Merano, in un microclima davvero unico: non credo che esistano in Italia altre bollicine di tale qualità prodotte in zone così estreme, il che lo rende ancora più intrigante.

Il Blanc de Blancs di Arunda resta ad affinare sui propri lieviti addirittura 36 mesi dopo una lavorazione in barrique, che lo rende davvero cremoso.

Poi si prosegue con il primo dei cinque Chardonnay tradizionali e non ci spostiamo di molto: nemmeno 30 km, sempre in Alto Adige (oramai dovreste averlo capito che coi vini di questa regione per me è amore allo stato puro) dove fra tante etichette di qualità la scelta è caduta sul Lowengang 2008 della Tenuta di Alois Lageder, uno dei pionieri e dei personaggi di riferimento della viticoltura atesina. Siamo a Magrè, sopra il Lago di Caldaro, fra vigneti che si inerpicano fino quasi a 500 metri d’altezza. Un buon vino non nasce in cantina, ma nel vigneto, ama ripetere Alois Lageder  che proprio per tale motivo da diversi anni ha convertito in biodinamica tutta la propria agricoltura.

Il risultato è un vino chiara espressione di questo terroir, luogo unico e irripetibile nello scenario italiano. Nella degustazione  emergono interessanti note di frutta esotica come la papaya prima che il burro e la vaniglia facciano pensare anche alla tostatura del legno dove sicuramente questo vino è passato. In bocca una piacevole acidità è ben equilibrata da altrettanta morbidezza, conseguenza anche in questo caso di una fermentazione che avviene in legno così come gli 11 mesi di affinamento in barriques.

Secondo bicchiere, di spettacolare colore dorato che evoca immediatamente regioni calde. Forse un po’ meno intenso del precedente, ma assai intrigante: miele, sentori minerali, fiori d’acacia, torrone, torrefazione. In bocca sono il calore dell’alcol e la solita morbidezza a prevalere; quest’ultima non può di nuovo non farci pensare a una vinificazione in legno, che in effetti avviene fin dalla fermentazione per poi proseguire con un invecchiamento di ben 23 mesi in barriques nuove. Siamo in Abruzzo da Masciarelli, azienda di cui ho parlato di recente (vedi il Trebbiano e il risotto improvvisato) , uno dei produttori che ha portato alla ribalta questa regione in tutto il mondo col suo Montepulciano, ma che sa produrre straordinari vini anche dagli altri vitigni coltivati, fra cui questo Chardonnay Marina Cvetic, della selezionata linea dedicata alla compagna di vita che ora – dopo la prematura scomparsa del marito – continua a portare avanti il progetto insieme alla figlia Miriam Lee.

Talmente buono che per il pubblico in sala è stato il vino della serata, capace di mettere tutti d’accordo, senza nemmeno un giudizio di dubbio.

Non così è stato per il bicchiere numero tre, proveniente da Oltralpe e prodotto nientedimeno che da quel Domaines Leflaive che fa parte della ristretta cerchia dei produttori proprietari dei Grand Cru di Montrachet, la collinetta dei più grandi chardonnay al mondo. Prima  che urliate tutti all’eresia è opportuno precisare che loChardonnay Macon-Verzè 2008 che abbiamo proposto in realtà proviene dalla zona di Macon che sta una trentina di km. più a sud del paradiso terrestre sopra descritto: nel 2004 il famoso Domaine in questione decise di investire in questi 9 ettari in una zona completamente nuova per dar vita a un vino dallo straordinario rapporto qualità/prezzo, prodotto secondo lo stile dei grandi Montrachet, ma ovviamente molto più semplice.

Di colore paglierino vivace, piacevoli sentori agrumati, minerali tipici del territorio e poi una tostatura sicuramente meno marcata dei precedenti. In bocca l’acidità è evidente, le sensazioni complessive fanno pensare a un uso limitato del legno rispetto ai vini precedenti, che è davvero un paradosso visto che nella parte teorica avevamo per l’appunto specificato l’importanza del legno in Borgogna!

Un vino comunque che con qualche altro anno di affinamento potrà presentarsi sicuramente ancora più pronto.

Ma non c’è tempo per le riflessioni, perché è di scena il campione numero quattro, quello che spaccherà la platea. E quando un vino disorienta, crea discussione, per taluni è straordinario, mentre altri non lo capiscono, in genere è comunque un grande vino. Un po’ come certi film: meno li capisci, più ti viene da pensare a un grande regista che non ha voluto proporre una trama scontata.

Ecco quindi chi ha detto che proveniva dall’estero, chi ha evocato i Paesi del Nuovo Mondo, chi ha pensato invece a regioni dal clima caldo. Sì perché l’affascinante colore dorato e quei sentori terziari esasperati a ricordare smalti, solventi (sa di pagina di rivista patinata ha osato qualcuno) hanno sorpreso, ricordando persino vagamente il flor dello sherry. Spettacolare anche in bocca con grande morbidezza, persistenza infinita, finale amarognolo, ammandorlato. Sulla mia personale scheda è stato il vino della serata, così come per molti altri: ma tanti sono stati i pareri opposti, quasi da vino manicheista: o con me o contro di me, o bianco o nero.

Giù la maschera, era lo Chardonnay Giarone 2007, fermentato e affinato per 12 mesi in barrique nuove, prodotto nel Monferrato (!) da quell’Aldo Bertelli che i cinepanettoni li lascia girare ad altri: lui è fuori da qualsiasi schema e nel territorio forse più tradizionalista del vecchio Piemonte, quello della barbera, ha creato i capolavori d’autore, capaci di sorprendere, disorientare, lasciare esterefatti. Oltre allo Chardonnay si dice che anche il Sauvignon e  persino un Traminer seguono lo stesso stile, mentre la Barbera, da vecchie vigne,  ha bisogno di dieci anni (!) di affinamento prima di andare sul mercato.

Insomma, non si può negare che abbiamo fatto saltare gli schemi proponendo un produttore sui generis: così come non si può negare quanto in questo caso il legno ha condizionato in maniera pesante il vino, una scelta stilistica che può piacere o meno e che appunto ha diviso la platea.

Ma le sorprese non finiscono, perché alla bottiglia numero 5 qualcuno a voce più o meno alta si lascia scappare un Nord come zona di provenienza, forse per via di un colore paglierino e di una serie di caratteristiche che lasciano pensare al più classico degli Chardonnay: ananas, banana, gelsomino, burro fuso, vaniglia. Anche in bocca non sbaglia di nulla: elegante, sicuramente morbido, ma anche dotato di una bella sapidità e di una piacevole acidità che lo rendono il classico “perfettino”, il primo della classe con qualche brufoletto di troppo che non si farà mai trovare impreparato nemmeno di fronte a un’interrogazione a sorpresa.

Anche la vinificazione è la più classica che ci possiamo attendere, con fermentazione e successiva sosta di otto mesi in barrique, di cui il 70% nuove. Siamo in Sicilia (!), altro che Nord, e avevamo davanti lo Chardonnay 2009 di Tasca D’Almerita, uno dei più classici grandi esempi del Made in Italy di qualità.

Insomma, anche la terza serata dedicata ai vitigni nobili ha regalato emozioni e sorprese, con una proposta di vini che non aveva nulla da invidiare alle affermate (e molto costose …) serate di degustazione di cui spesso si legge in giro: sarà mica per questo che il numero dei curiosi che si avvicina a ogni nuova puntata continua a crescere?

Un’ultima riflessione, tanto oramai lunghi per lunghi ….  Avendo proposto nel corso della serata anche uno Chardonnay 2009 base, di un valido produttore veneto (Serafini & Vidotto, oramai entrato nell’orbita Eataly di Farinetti), apparso di una semplicità estrema, con sentori di frutta fresca e un po’ erbacei e una acidità più marcata, subito additato da tutta la sala col grido di “solo acciaio” senza alcun dubbio, diventa difficile negare che perlomeno nel caso di un vitigno neutro come lo Chardonnay, l’utilizzo marcato del legno ne determina in positivo le caratteristiche.

Con buona pace dei No Barrique a prescindere ….

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