Dieci Nebbioli indimenticabili – 24 ottobre 2012

Al cospetto del Re dei vini forse solo il foglio bianco potrebbe descrivere in maniera perfetta le emozioni che i 10 nebbioli selezionati per la serata “Eleganza e storia nel bicchiere” ci hanno regalato nella nostra nuova puntata alla scoperta dei Vitigni Nobili svoltasi mercoledì 24 ottobre al Museo del Gusto di Frossasco (TO).

Sì, perché dopo aver faticato a trovare le parole per raccontare le serate del gewurztraminer piuttosto che dell’aglianico, del riesling o del sangiovese, mai come ora verrebbe da posare la penna e dire che alla degustazione del nebbiolo non c’è davvero nulla da aggiungere: hanno parlato a sufficienza loro, i dieci bicchieri protagonisti ed hanno fatto soprattutto poesia.

Bere il nebbiolo, come dice il giornalista e scrittore Andrea Scanzi, è subirlo, è esserne assoggettati. Da restare appunto senza parole in rispettoso silenzio.

Altro che il vitigno da cui i modaioli del vino rifuggono perché ritenuto sempre “troppo”: impegnativo, complesso, difficile.

La nostra serata credo abbia vinto questo stereotipo: perché malgrado la mezzanotte fosse oramai suonata da un pezzo, ogni bicchiere continuava ad avere cose sempre più interessanti da dire e nessuno sembrava intenzionato ad alzarsi malgrado l’ora tarda.

Eppure – come abbiamo più volte evidenziato – la nostra non è un’associazione di tecnici così preparati che se non gli dai quantomeno un nebbiolo o un pinot noir, non si siedono nemmeno al tavolo. Le nostre serate vogliono trasmettere emozione (e anche qualche nozione) a chi pensa che un bicchiere di vino buono sia un piacere irrinunciabile e vuole avere l’opportunità di constatare di persona cosa significa bere vini di qualità, che noi ci occupiamo di selezionare e proporre: ecco l’unica differenza fra chi organizza e chi partecipa.

E proprio dalla parola emozione abbiamo cominciato la serata, chiedendo a ognuno dei partecipanti di degustare tutti e dieci i nebbioli che avevano nei bicchieri solo sulla base delle emozioni che ognuno di quei vini a loro esprimeva, senza alcuna altra informazione e spiegazione.

Sveleremo dopo quale è stato il vino più emozionante.

Prima invece ci siamo dedicati a una full immersion di un’oretta per scoprire tutto o quasi di questo vitigno, dalle origini che risalgono ai tempi dei Romani descritte da Plinio il Vecchio, ai primi documenti che citano espressamente il nebbiolo a fine 1200 per arrivare poi alla svolta epocale del 1800 quando l’enologo francese Louis Oudart, collaborando con Cavour e con la Marchesa Giulia di Barolo trasforma un vino dolciastro e poco apprezzato come era il nebbiolo in un grande vino secco oramai diventato la bandiera della nostra enologia in tutto il mondo.

E qui c’è stata la sorpresa che ha reso ancora più unica la serata: fra i banchi in prima fila c’era infatti anche Alberto Arlunno, proprietario degli Antichi Vigneti di Cantalupo a Ghemme, nell’Alto Piemonte, dove il nebbiolo è di casa da millenni, che oltre che produrre grandi vini è anche un affabile narratore e che ci ha deliziati e devo dire in certi momenti persino incantati con i suoi racconti di uomo che vive in simbiosi con la vigna e con la cantina.

Evidenziate le caratteristiche principali del vitigno, che ha nella buccia poca materia colorante (ecco spiegato il colore così scarico e trasparente rispetto agli altri vini rossi) e tannino in abbondanza (ossatura indispensabile per lunghi invecchiamenti, ma ostacolo per i vini ancora giovani), abbiamo fatto un rapido viaggio virtuale a partire dalla viticoltura eroica della Valtellina e della Valle d’Aosta, dove le vigne si trovano lungo pendii scoscesi lavorati solo manualmente con tanta fatica, per poi passare alla enclave dell’Alto Piemonte, fatto di due Docg spesso sottovalutate ma di grandissimo pregio come Gattinara e Ghemme e di tante Doc poco conosciute da cui derivano vini straordinari: una su tutte, Boca.

Da queste parti il nebbiolo è meglio conosciuto come spanna.

Poi siamo scesi nel cuore del nebbiolo, il Roero e le Langhe, così vicine e così diverse, dove si concentra oltre il 70% della coltivazione italiana di queste uve e dove centinaia di aziende agricole hanno raggiunto dei livelli di qualità indiscussa.

Attenzione quindi a ritenere i vini del Roero o i Nebbioli Doc così tanto inferiori ai blasonati Barolo e Barbaresco, perché la sorpresa è sempre in agguato.

In queste colline sono le caratteristiche uniche al mondo del terreno e una combinazione positiva di altri elementi legati a clima, esposizione e latitudine, ad aver creato le condizioni per rendere ineguagliabile il nebbiolo.

Dopo una rapida conoscenza della zona delle due Docg in assoluto più importanti, Barolo e Barbaresco, con le loro sottozone, i famosi Sorì da cui provengono alcuni dei vini più importanti al mondo, abbiamo posto l’attenzione sulle tecniche di vinificazione.

Il nebbiolo è in effetti uno dei vitigni più difficili da coltivare e vinificare e quindi sempre attuale è la diatriba fra i produttori più tradizionalisti che non hanno timore di estrarre tannini e di lasciare maturare i loro vini nelle vecchie e grandi botti di rovere di Slavonia per lunghi anni, ben sapendo che il loro nebbiolo non sarà subito commerciabile e apprezzato dai consumatori e i produttori modernisti, che qualcuno ha definito i Barolo Boys e che invece ricorrono (e talvolta abusano) alle scorciatoie che la tecnologia enologica moderna offre per velocizzare i processi temporali necessari a rendere godibile fin da subito il nebbiolo.

Alla domanda fatta ad Alberto Arlunno se lui si senta tradizionalista o modernista, l’eloquente risposta è stata un ‘altra domanda: “Un nebbiolo pronto subito, sarà pronto anche fra vent’anni?”

E riflettendo su queste parole ci siamo finalmente dedicati ad approfondire la conoscenza dei dieci bicchieri che avevamo di fronte e che ci hanno riempito di emozioni, grazie anche alla magistrale guida di Silvana che ci ha accompagnati con leggerezza nella degustazione di ogni impegnativo singolo vino.

Inutile ribadire che avevamo di fronte dieci fra i migliori vini prodotti da uve nebbiolo che si possono trovare sul mercato rimanendo in una fascia di prezzo umana: perché sappiamo tutti che ci sono anche bottiglie prodotte con uve nebbiolo che costano minimo dai 100 ai 300 euro l’una, però quelli sono vini per ricchi, bevuti da persone che il più delle volte non sono certo spinti dalle nostre motivazioni.

L’inizio è stato subito particolarmente gradevole con il Nebbiolo d’Alba Doc 2009 di Hilberg Pasquero, piccola realtà di Priocca nel Roero che conferma immediatamente quanto detto sui vini di questo territorio: più morbidi e semplici, ma quindi anche piacevoli fin da subito. Così l’acidità e la vivacità del tannino non sono stati d’ostacolo all’eleganza, mentre la parte fruttata fatta di lampone e ribes è stata una delle più marcate di tutta la serata.

Stiamo parlando peraltro di uno dei vini più celebrati dalla critica nell’ambito della Doc.

Probabilmente il più pronto fra i vini della serata e non per nulla sono stati in molti a metterlo in cima alla lista delle proprie emozioni.

L’impatto olfattivo col vino successivo però ci ha portato in un’altra dimensione, fatta di note balsamiche, speziate, minerali, liquirizia. In bocca il vigore della struttura si percepiva tutto, ma in realtà l’eleganza di un tannino quasi vellutato mi ha portato a definirlo immediatamente un nebbiolo “femminino”, di quello che strizza l’occhio anche al gentil sesso che in genere privilegia vini più morbidi. E in effetti è proprio così che è definito da alcuni il Barbaresco, in questo caso si trattava del Sorì Paitin 2008 della famiglia Pasquero nel comune di Neive, altra piccola eccellenza di una delle due Docg più importanti del Piemonte, diciamo l’equivalente a Monopoli di Viale dei Giardini se il Barolo è Parco della Vittoria.

L’utilizzo di tecniche più moderne di vinificazione e l’affinamento in botti nuove probabilmente contribuisce a rendere anche questo secondo vino assolutamente già perfetto.

Al terzo bicchiere ecco presentarsi le grandi salite del nostro Giro di Nebbiolo, con il classico tappone di montagna. Sottobosco, fogliame, funghi, note di ciliegia sotto spirito. Il tannino più ruvido, un’acidità marcata, ma nel contempo quell’equilibrio dovuto all’eleganza e alla classe che si percepiscono nei grandi vini ancorchè giovani non poteva non farci pensare che a un Barolo. “Vorrei che i miei vini non fossero pronti mai” pare ami dire il produttore di questo emozionante Cannubi San Lorenzo Ravera 2008. Stiamo parlando di Giuseppe Rinaldi, uno dei nomi storici di Langa, uno dei personaggi più citati come esempio degli strenui paladini della tradizione. E d’altronde con lui e con le figlie Carlotta e Marta siamo alla quinta e sesta generazione di una storia cominciata a inizio ‘800 nel comune di Barolo con Battista Rinaldi e rimasta ancorata a una piccola realtà familiare nella terra invece dei fatturati milionari di chi produce centinaia di migliaia di bottiglie.

Bottiglia invece, quella di Rinaldi, che con la sua etichetta evoca il passato e quei sentimenti così carichi di emozioni per i quali non possiamo che essere felici di aver giudicato senza saperlo quel vino non ancora pronto rispetto agli altri, quasi come se quel bicchiere ci volesse invitare a pensare, ad aspettarlo.

Non per nulla la stessa bottiglia rimasta aperta, due giorni dopo era tutt’un altro vino, migliorato ulteriormente. Pensate che Rinaldi nelle grandi e vecchie botti di rovere della sua cantina questo vino ce lo lascia ben 42 mesi a maturare lentamente, vogliamo lasciarcelo noi almeno altri 15 anni in cantina?

Eppure, malgrado si tratti di un vino ancora così bisognoso di tempo, la stessa annata da noi degustata è finita pure nella speciale classifica dei migliori 50 vini italiani dell’anno, stilata di recente da un comitato di professionisti del settore fra i più qualificati, nell’ambito del Best Italian Wine Awards.

Dopo tanto Piemonte è stato il momento della Valtellina. Note dolci, da burro e marmellata, inconsuete nel panorama della serata, oltre a confettura, cioccolato e spezie dolci. Anche al gusto il vino appare più gradevole, con un tannino sicuramente fra i più levigati della serata malgrado la struttura possente.

E’ il Grumello Riserva 2007 di Aldo Rainoldi, prodotto solo nelle annate più favorevoli dalle uve raccolte nel più alto e impervio dei vigneti di questa affermata realtà di Chiuro, in provincia di Sondrio.

Molto famosi anche i suoi Sfursat, in particolare il Fruttaio Cà Rizzieri, che tuttavia per la speciale tecnica di vinificazione (gli sfursat fanno un appassimento prima della fermentazione) non avevamo ritenuto congruo presentare in questa serata di nebbioli più tradizionali.

Certo il Grumello in un contesto così austero ha un po’ disorientato la platea, preparata psicologicamente a vini meno facili. Qui le tecniche di vinificazione moderna e un affinamento in barrique di rovere nuove ne condizionano sicuramente il risultato finale.

Il mercato sicuramente apprezzerà un vino con queste caratteristiche, fra i tradizionalisti del nebbiolo qualcuno storcerà probabilmente il naso.

Si ritorna in Piemonte, ma questa volta nella zona meno nota per il nebbiolo, quella fra il novarese e il vercellese.

Siamo a Boca in provincia di Novara, in località Le Piane da cui prende il nome la piccola azienda di Christoph Kunzli, un’altra delle tante gemme della viticoltura italiana, che coi suoi vini ha contribuito non poco alla valorizzazione di questa minuscola e sconosciuta Doc.

Il vino che abbiamo scelto è l’omonimo Boca Le Piane 2007, costituito oltre che da un 85% di nebbiolo, anche da un 15% di vespolina, che aiuta a stemperare un poco la eccessiva acidità derivata dai terreni di questa zona.

Il colore nel bicchiere è il più carico, profumi eleganti ed evoluti, balsamici, una nota speziata, chiodi di garofano, una mineralità per nulla pungente, ma invece accattivante. In bocca il tannino evidente ma comunque levigato si accompagna a una piacevole morbidezza.

Altro vino quindi che dopo i 36 mesi in botte grande e l’ulteriore anno in bottiglia si presenta già in ottima forma, ma che potrà ancora migliorare nel tempo.

Facciamo solo pochi chilometri per finire a Gattinara, un’altra delle Docg meno note dove il nebbiolo può lasciare a bocca aperta.

Sicuramente ci è riuscito il Gattinara Riserva 2006 di Travaglini, azienda leader della zona, un vino prodotto solo nelle migliori annate e proveniente da uve selezionate. I profumi sono estremamente complessi: si va da una evidente mineralità derivata dai terreni del Nord Piemonte così diversi dagli altri, a sentori più erbacei, alla frutta in confettura, al tamarindo, al tabacco dolce. Al gusto prevale l’eleganza con un tannino già morbido, ma l’unicità rispetto a tutti gli altri bicchieri sta nella evidente sapidità nuovamente derivata dal territorio.

E anche questo vino, come il Barolo di Rinaldi, è nella lista dei 50 vini migliori d’Italia secondo la classifica di cui abbiamo parlato sopra, oltre ad essere da sempre fra i più celebrati dalle varie Guide.

L’ora si sta facendo tarda, Silvana è costretta ad accelerare il ritmo, senza ancora sapere, né lei, né la platea, che i prossimi tre vini selezionati sono risultati al primo assaggio alla cieca fatto alle ore 21.00 i tre più emozionanti.

Siamo di nuovo in Roero, il colore nel bicchiere forse è il più tipico che ci si può aspettare da un nebbiolo, con il suo rosso granato tendente quasi all’aranciato. La bottiglia è un Mombeltrano Riserva 2007 di Malvirà, affermata azienda di Canale. Al naso si comincia con ciliegia e fragola, poi speziature dolci, liquirizia, legno bruciato. In bocca il tannino scalpita nella sua potenza, l’acidità non scherza, ma il vino è comunque equilibrato e lascia intravedere un grande potenziale.

Per la platea era stata la medaglia d’argento anche se i più ammettono che tutti i vini nei bicchieri nel frattempo sono molto mutati e quindi probabilmente muterebbero anche i giudizi se si tornasse a votare, a conferma di quanto aleatoria è una valutazione basata su emozioni d’istinto.

Non ci spostiamo di molto con il vino successivo, trasferendoci alle porte di Monforte, sul Bricco Appiani. I fans del nebbiolo e i lettori dei libri di Andrea Scanzi a questo punto avranno già capito che stiamo parlando di Flavio Roddolo, un vignaiolo come vorremmo che fossero i vignaioli nel nostro immaginario collettivo. L’ho sentito poche ore prima della serata al telefono per tentare ancora di averlo anche di persona e non solo coi vini, ma era appena sceso dal trattore approfittando degli ultimi caldi per muovere la terra, pieno di lavori ancora da fare prima che l’arrivo del freddo faccia calare il sipario per qualche tempo sulle Langhe. E d’altronde solo pochi giorni prima della nostra serata sarebbe dovuto andare a Roma a ritirare l’ambito riconoscimento dei Tre Bicchieri del Gambero Rosso, ma il pensiero di dover lasciare per due giorni i vigneti con tutto quello che resta da fare l’ha convinto a rimanere in Langa: altri produttori ci sarebbero andati a piedi pur di poter avere quel pezzo di carta da appendere in cantina.

Roddolo porta avanti l’attività quasi in solitudine, producendo un totale di 20.000 bottiglie e il vino di cui va più fiero è il Dolcetto d’Alba Superiore, impiantato lì in mezzo a quei terreni di Langa che valgono oro se coltivati a nebbiolo! Già questo la dice lunga sul tipo …

Gli abbiamo chiesto la scheda tecnica del vino in degustazione che a fine serata consegniamo ai partecipanti, ma non esiste, lui non ha proprio pensato di realizzarla così come ovviamente non vi possiamo linkare un sito web o altro!

Avremmo voluto proporre il suo Barolo Ravera, ma ne produce poche bottiglie, ha preferito inviarci un Nebbiolo d’Alba Doc 2007. Una guida lo ha definito un Barolo mascherato da Nebbiolo, pensavo fosse la solita esagerazione poetica, invece mi sono dovuto ricredere.

Di colore granato quasi aranciato, si presenta al naso particolarmente complesso e quasi indecifrabile, come se volesse nascondersi, schivo e sfuggente come il suo produttore. Violetta, balsamico, sottobosco, mora, terra bagnata, ma senza sentori realmente definiti. In bocca mi aspettavo altrettanta severità e invece siamo di fronte a un tannino super levigato con morbidezze evidenti.

Anche lui come Rinaldi i suoi vini li aspetterebbe in eterno perché non sono mai pronti, non crediamo gli possa quindi far piacere sapere che il suo Nebbiolo Doc era invece finito per la nostra platea sul gradino più alto del podio delle emozioni, quasi a volerlo smentire!

Il penultimo bicchiere ci riporta nell’alto Piemonte, dove oltre al Gattinara, c’è una seconda Docg più piccola e sempre prodotta da uve nebbiolo, il Ghemme.

E a rappresentare il territorio non potevamo che scegliere gli Antichi Vigneti di Cantalupo di Alberto Arlunno che ha voluto proporre il Collis Breclemae 2004. Da una selezione delle uve più mature, impiantate in un terreno ricco di minerali provenienti dai fondali del paleoceano Tetide che separava Africa ed Europa proprio ai piedi del Monte Rosa, come ci racconta lo stesso Alberto.

Al naso il vino si presenta generoso e inconsueto, austero con la sua speziatura e una mineralità unica che evoca persino gli idrocarburi, ma anche suadente con la frutta matura, more e ribes, in confettura e sotto spirito. Al gusto nuovamente una sapidità inconfondibile armonicamente bilanciata da una avvolgente morbidezza agevolata da un tannino piuttosto levigato.

E d’altronde era anche il vino più maturo fra quelli fin qui proposti, anche se i suoi otto anni lo rendono assolutamente ancora giovane, ma comunque già così suadente da fargli assegnare una simbolica medaglia di bronzo nella scala delle emozioni percepite dalla nostra platea.

Chiudiamo in bellezza con l’ultimo bicchiere, tornando ovviamente nel cuore delle Langhe, nel comune di Barbaresco dove la nostra selezione è nuovamente andata su una delle piccole realtà più significative per come intendiamo noi il mondo del vino, l’azienda Giuseppe Cortese di Piercarlo Cortese. Il Barbaresco Rabaja Riserva 2004 che nasce da uve selezionate nell’omonimo Cru, uno dei più noti della Docg, è anch’esso un vino d’altri tempi e non per nulla ha emozionato poco la platea al primo approccio, entrando invece fra quelli che “mamma mia come è cambiato rispetto a un’ora fa”.

Sentori di cuoio, balsamici, minerali, terrosi a cui poi si sovrappone la finezza della viola. E in bocca un’acidità ancora marcata e la possenza di un tannino comunque molto vellutato non solo ci dicono che questo vino avrà lunga vita davanti a sé, ma ne confermano anche una immediata piacevole bevibilità.

Un’altra di quelle bottiglie che bevute il giorno dopo sorprendono per come i nebbioli più grandi sanno nascondersi per poi rivelarsi soltanto a coloro che hanno avuto la pazienza di aspettare e la curiosità di non fermarsi alle prime apparenze.

E tornando a Camillo Cavour, figura così tanto associata a questo vitigno e ai suoi vini, è ancora Alberto Arlunno a regalarci il finale con le sue parole. Il conte nel 1845 (e cioè prima ancora che Oudart intervenisse a trasformare la qualità dei vini di Langa) scrivendo a un amico dichiarava: “Or dunque rimane provato che le colline del novarese possono gareggiare coi colli di Borgogna, e che a trionfare nella lotta è solo necessario proprietari che diligentino la fabbricazione del vino e ricchi ed eleganti ghiottoni che ne stabiliscano la reputazione”.

Era il 1845, non oggi …. E direi che nel mentre di proprietari che abbiano “diligentato” la fabbricazione stasera ne abbiamo individuato dieci sicuri, quanto ai ghiottoni, forse non saremo ricchi e nemmeno eleganti, ma faremo di tutto per continuare a stabilirne la reputazione!

MaxWine

Comments

  1. Gent.ma Sig.ra Carolina,
    e’ stato un dispiacere non partecipare a questa interessante degustazione e sono convinta che i vini da uve Nebbiolo hanno sempre una marcia in più, nell’eleganza, finezza e sopratutto l’importanza del nostro territorio la “mineralità”. Grazie della Vostra collaborazione, distinti saluti

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