Cinque grandi vini, cinque grandi piatti a Il Ciabot -11 dicembre 2012

“Certo che siete proprio una bella combriccola”

Non poteva trovare parole migliori per farci sentire orgogliosi del cammino fin qui fatto in questi primi mesi di appuntamenti firmati “Viva il Vino” Claudio Alario, viticoltore di Langa, intervenuto di persona alla serata “Grandi vini per grandi chef” svoltasi al ristorante Il Ciabot di Roletto (To) martedì 11 dicembre con cui la nostra associazione ha chiuso il suo calendario 2012.

Una combriccola che vuole condividere momenti unici fatti di amicizia e convivialità, intrisi però di storie, curiosità, un po’ di cultura e tanta passione, di cui il mondo del vino è pieno grazie ai tanti personaggi che dedicano la loro vita per regalarci bottiglie che sono emozioni e di cui noi non possiamo fare a meno di esserne ambasciatori portandole alla vostra conoscenza.

Concetti forse un po’ edonistici, ma che ci fanno trovare sempre di grande attualità la frase di Goethe secondo cui “la vita è troppo breve per bere vini mediocri”.

Grandi chef in cucina, grandi vini che selezioniamo noi di Viva il Vino, è questa la nostra formula per offrire qualcosa di diverso al nostro pubblico, perché non potrà mai esserci un ristorante con una carta dei vini così estesa da consentire proposte così di nicchia come quelle che abbiamo abbinato ai piatti di Mauro Agù, lo chef titolare de Il Ciabot insieme alla moglie Lorena, locale che interpreta al meglio la cosiddetta cucina di territorio.

Perché mangiare bene non vuol dire per forza doversi sottoporre alle sperimentazioni creative di chef stellati che oltretutto ti fanno pagare un piatto come nemmeno Van Gogh faceva con una sua tela. Ecco perché la faccina radiosa del Bibendum stampata accanto all’indirizzo de Il Ciabot sulla Guida Rossa (Michelin) che sta a significare “pasti accurati a prezzi contenuti” ci ha fatto sentire a nostro agio nella certezza di avere proposto un locale in perfetta sintonia con la filosofia della nostra associazione.

Ancora di più quando molti dei presenti hanno confessato che per loro si è trattato di una scoperta assoluta, proprio come spesso accade con i vini che proponiamo.

La serata ha preso il via con l’”Ode al Vino” di Pablo Neruda, recitata con pathos dalle bravissime Sabina e Carolina, ad introdurre “La composta di gallina bianca all’aceto balsamico e verdurine croccanti”, un delicato e piacevole antipasto servito in un cestino di pasta brisè che ha peraltro limitato l’assaggio degli straordinari diversi tipi di pane che Mauro Agù realizza appositamente per accompagnare le sue portate.

Il Pinot Gris di “Lo Triolet” che abbiamo voluto proporre in abbinamento ci ha consentito di raccontare una regione dove fare vini di qualità è una sfida ancora più difficile che altrove: la Valle d’Aosta, dove Marco Martin, titolare della cantina, coltiva i suoi vigneti a circa 700/900 metri di altezza.

Un’avventura cominciata quasi per caso nelle vigne di famiglia, con la passione del farsi il vino da sé affiancata a un lavoro sicuro come tecnico in Regione, che in pochi anni è diventata invece un mestiere portando i vini di Lo Triolet sul palcoscenico dei migliori interpreti valdostani.

Il suo Pinot Grigio, vinificato in acciaio (ne esiste anche una versione più impegnativa elevè en barrique) si è dimostrato ciò che ci aspettavamo con un piatto così: sentori erbacei, muschio, la pungenza degli agrumi, in bocca delicato, ma con una freschezza gradevole e non eccessiva, armonica con il piatto stesso.

Degustato alla cieca, ha portato buona parte della platea fuori strada: in molti certo avevano pensato a un vino del Nord, ma nessuno ha detto Valle d’Aosta: la nostra missione era compiuta già al primo vino!

Il secondo antipasto che Mauro ha voluto prepararci è stato davvero sublime: “Tortino di toma con vellutata al tartufo”, quasi un cheese cake ricco però della sapidità della toma e impreziosito dall’esplosione aromatica della crema di tartufo.

Non sarebbe stato facile trovare un vino con le caratteristiche adatte per questo piatto, se non fosse che in Valle Isarco, alla periferia di Bressanone, un giovane viticoltore che portava le proprie uve alla locale Cooperativa di produttori, a un certo punto della sua vita ha deciso di mettersi anche a vinificare. E così che è nata la minuscola cantina di Manni Nossing (20.000 bottiglie circa prodotte all’anno), diventato in breve tempo uno dei personaggi più noti nel panorama enologico altoatesino ricco di qualità: non so bene cosa si intenda quando certi viticoltori vengono definiti dalla critica personaggi autorevoli e carismatici, forse è un eufemismo coniato per descrivere uomini a cui del marketing e delle pubbliche relazioni interessa poco perché non hanno tempo, “costretti” dal loro lavoro a trascorrere ore, giornate, una vita, in mezzo ai vigneti.

Certo che se però quei vigneti sembrano giardini incastonati in mezzo alle montagne come capita in questo angolo d’Italia, può anche essere una piacevole costrizione.

Manni Nossing produce quasi esclusivamente vini bianchi, frutto di vitigni specifici della zona, come per esempio il Gruner Veltliner e il Kerner, con i quali sembra aver fatto l’abbonamento ad ottenere ogni anno il massimo delle valutazioni dalle principali Guide.

Noi con il tortino abbiamo proposto il Kerner, apparso immediatamente di notevole intensità aromatica, adatta a reggere l’esuberanza del piatto: sentori vegetali, erba medica, salvia, molta mineralità. E poi la freschezza degli agrumi come il lime. Profumi che a stare nel bicchiere si sono ulteriormente aperti portandoci anche una punta di zenzero e sfumature leggermente fumè.

Ma è al gusto che una certa struttura è venuta fuori con un sapore deciso e una freschezza talmente esasperata da apparire tagliente, quasi acidula. Sarebbe stata eccessiva con altre portate o bevendo da solo quel vino, è risultata semplicemente perfetta per “lavare” invece il palato dalla grassezza del nostro tortino e della annessa vellutata.

Non male per essere solo all’antipasto!

Primo piatto, “Pappardelle di grano saraceno al ragù di fagianella”, ancora una volta lo chef ci stupisce per la qualità degli ingredienti, si finisce a fare scarpetta nel ragù di fagianella di una bontà indescrivibile, tanto la serata è entrata oramai nel vivo e l’associazione ha colonizzato il locale con i suoi tre tavoli, quello dei “secchioni” che poi sbancherà il montepremi, quello delle “istituzioni” con giornalisti e produttori in incognito e quello dei “casinisti”, che alla piacevole convivialità uniscono comunque la voglia di imparare anche qualche cosa, come ha scritto sulla pagina Facebook di Viva il Vino la nostra brillante socia Valeria.

Con le pappardelle abbiamo proposto in abbinamento un rosso, il Dolcetto d’Alba Costafiore, un vino che potesse venire incontro a una portata più strutturata delle precedenti, in particolare per la presenza del ragù di fagianella, senza tuttavia sovrastarlo.

Gradevole intensità aromatica, caratterizzata da mora, ciliegia, viola, sentori erbacei, paglia, prima di sorprenderci in bocca dove la bella freschezza garantita dalla vinificazione in solo acciaio si unisce alla finezza di un tannino morbido e per nulla invasivo nei confronti del piatto. Possiamo anticiparvi che – una volta svelati tutti i vini a fine serata – la platea ha giudicato questo abbinamento il più armonico e riuscito fra tutte e cinque le proposte.

A raccontarci qualche aneddoto su questa azienda piemontese (non poteva mancare un abbinamento territoriale fra cibo e vino) è stato lo stesso produttore, Claudio Alario, che a metà della serata ha così calato la maschera svelandosi come tale ai commensali che lo credevano un socio nuovo. Nuovamente una cantina piccola (circa 40.000 bottiglie prodotte l’anno), nuovamente una storia familiare che va indietro di almeno tre generazioni vissute di coltivazione della vigna con la vendita delle uve, fino a quando il giovane Claudio – finiti gli studi di agronomia – decide di mettersi a produrre il vino, diventando in breve tempo uno dei migliori produttori di quella Langa fra Diano d’Alba e Verduno, dove è ancora più difficile emergere per via del confronto con i tanti nomi blasonati che stanno intorno.

Ecco perché nelle nostre serate i vini saranno sempre degustati alla cieca, mica perché vogliamo una platea di maghi e indovini, ma solo per evitare condizionamenti da etichetta.

Alario ha raccontato che non c’è solo il nebbiolo in Langa (da cui lui peraltro produce anche un grande Barolo, il Sorano), ma “è proprio coi vitigni più semplici come il dolcetto e nelle annate meno facili che un bravo viticoltore sa distinguersi”.

E quando le storie di vino sono raccontate direttamente dagli attori protagonisti, hanno certamente un fascino e un sapore diverso.

Ma poi è arrivato il secondo, “Filetto di maiale al calvados e mela caramellata” e la parola è tornata ai piatti.

“Amo cucinare quello che farei per me, selezionando pertanto i produttori fra agricoltori e macellai del circondario” si racconta lo Chef Mauro Agù in una delle poche fuoriuscite dalla cucina che si è concesso per raccogliere il meritato applauso che la platea voleva tributargli.

In sala è invece Lorena, compagna anche di vita, a districarsi in maniera armonica fra i tavoli, a dimostrazione di come dalla condivisione delle passioni si può trasformare un locale in un posticino accogliente dove far sentire i clienti come a casa di amici.

Tornando al filetto, era di una tenerezza da urlo, cotto al punto giusto e arricchito dall’aromaticità e dal calore dell’alcol del Calvados e dalla nota dolciastra delle mele caramellate.

E qui abbiamo calato l’asso che tenevamo in mano e che in molti si aspettavano, pur senza sapere in che zona saremmo andati a parare.

Siamo andati in Toscana, a cercare un’altra bella storia da raccontare.

Sempre di una piccola realtà emergente (circa 70.000 bottiglie prodotte) e di un territorio ancora da scoprire come la Val di Cecina, nel Pisano, ai confini con la provincia di Livorno, a un passo dal mare, a un passo dalla ben più nota Bolgheri, dove invece la fama dei vini è mondiale (è da lì che arrivano Sassicaia, Ornellaia, etc.)

Questa volta però non c’è da raccontare di generazioni che producono uva da vendere, ma c’è invece un progetto internazionale, creato da Eric Albada Jelgersma, un magnate olandese che a un certo punto della vita ha deciso di vendere le eccellenze raggiunte in altri settori e di dedicarsi a quella che è la sua passione, il vino, acquistando due quotati Chateau a Margaux nel cuore dei grandi Bordeaux e la Tenuta Caiarossa, nel comune di Riparbella.

E da imprenditore lungimirante ha messo in campo una squadra di tecnici provenienti da diverse parti del mondo a cui ha dato carta bianca, a cominciare dal giovane enologo Dominique Genot che dopo alcune esperienze in giro per il globo, è venuto a giocarsi la grande occasione in Italia, insieme alla moglie Solenn che pochi giorni fa mi ha guidato nella piacevole visita di questa azienda.

In base a uno studio delle diverse caratteristiche del terreno della tenuta, si è deciso quali erano le tipologie di vitigni da impiantare zona per zona: dal cabernet franc, al sangiovese, al merlot, al cabernet sauvignon e persino a piccoli appezzamenti di syrah, petit verdot e alicante, per non parlare poi delle uve bianche per le quali speriamo di avere presto occasione di tornarci.

La coltivazione è rigorosamente biodinamica, con una rigida applicazione dei principi delle dottrine che disciplinano tale metodologia di lavorazione.

La cantina invece è un gioiello che fonde filosofia, tradizione e innovazione. Realizzata secondo la disciplina orientale del Feng Shui: per esempio sfruttando le diverse pendenze l’uva vendemmiata arriva a diventare vino in affinamento nelle barriques sotterranee senza che vengano mai utilizzate le pompe, perché tutti i processi avvengono a cascata, partendo dal livello strada e attraverso i vari livelli a cui sono state collocate presse, fermentatori, vasche, botti, eccetera.

Tornando al nostro filetto, ecco che abbiamo dunque proposto il Caiarossa 2007, vino omonimo al nome dell’azienda, che è frutto dell’assemblaggio ogni anno diverso di tutte le uve rosse dell’azienda, con una componente spesso preponderante del cabernet franc, a cui si aggiunge merlot, cabernet sauvignon, sangiovese e in parte minima gli altri uvaggi citati prima.

Questo avviene solo dopo che ogni singolo vitigno è stato vinificato in maniera indipendente, ed è stato affinato con tempistiche diverse e con metodologie differenti, che vanno dall’uso di barriques nuove, ad altre di più passaggi o a contenitori decisamente più grandi come i tonneaux.

Per pura coincidenza pochi attimi prima Claudio Alario aveva evidenziato la cultura monovitigno del Piemonte, simile alla Borgogna, aggiungendo che lui fa il viticoltore e non il farmacista che assembla. A Caiarossa e in molta Toscana lo stile è invece il medesimo di Bordeaux dove i grandi vini sono frutto dell’assemblaggio di uve diverse.

Filosofie diverse, prodotti diversi. A noi emozionano entrambe, a voi la scelta di cosa bere, anche in funzione delle occasioni.

Il Caiarossa, che fra barrique e botte grande trascorre 16 mesi, si è presentato come era logico attendersi da un rosso di questo tipo: possente, ricco già al naso, ma suadente come sanno essere i tagli bordolesi. Frutta matura e in confettura, in particolare mirtilli e more, ma anche tante spezie, sia quelle più dolci, sia quelle pungenti come il pepe nero, poi ancora sentori di cacao e note minerali. Anche al gusto non ci sono scostamenti: sontuoso, morbido con un tannino molto levigato, anche sapido con tutta la mineralità di un terroir particolare, ci concede un lungo finale dove il suo passaggio in legno si sente tutto, come sottolineava qualche commensale.

Ottimo accompagnamento al nostro filetto, piacevole armonia con le note aromatiche del piatto.

Eccoci infine al dolce, con la “Mousse al gianduiotto” sul quale abbiamo proposto un’altra delle chicche enologiche di cui è ricco il nostro Paese, autentica prima volta praticamente per tutti i presenti o quasi: il Doge di La Brugherata, Moscato di Scanzo, un passito rosso proveniente dalle colline calcareo argillose intorno a Bergamo, dove la protezione delle Alpi Orobiche ha creato un micro clima ideale per questo particolarissimo vitigno autoctono, di origine ellenica e di cui già nel 1300 sono documentate tracce sul suo prestigio. Se lo contendevano infatti i Guelfi di Scanzo e i Ghibellini di Rosciate.

Si tratta praticamente della più piccola docg italiana, piccola davvero perché i produttori non arrivano a una trentina e noi fra queste abbiamo scelto ovviamente l’eccellenza, la piccola azienda (40.000 bottiglie circa l’anno) della famiglia Bendinelli, guidata dalla dinamica Frida Tironi, che per il quinto anno consecutivo con Il Doge ha ottenuto il massimo riconoscimento dalla Guida AIS.

Deliziosa ma strutturata la mousse, indispensabile quindi un vino sì dolce ma altrettanto strutturato e ricco di alcol per non essere letteralmente travolti dall’esuberanza gustativa del cacao.

Il Moscato ha superato in pieno la prova, con un bouquet ampio e gradevole fatto di fiori macerati, sciroppo d’amarena, confettura rossa, ma poi anche note più vegetali, speziate per arrivare infine a sentori del cacao stesso con il quale lo abbiamo abbinato.

Ma è sorseggiandolo che l’abbinamento ha strappato l’applauso perché l’acidità derivata dai 30 mesi in acciaio insieme a un elegante tannino e a una discreta sapidità contribuiscono in maniera determinante alla gradevolezza del Doge, senza tuttavia renderlo stucchevole.

Cinque straordinari piatti della cucina tradizionale piemontese rivisitati da un grande chef, cinque grandi vini eccellenza di altrettante diverse regioni e mai degustati prima dai presenti.

La meravigliosa fusione cibo-vino è riuscita anche stavolta grazie a un cast di attori protagonisti davvero all’altezza delle aspettative.

Per la cronaca il vino “emozione” secondo il giudizio della platea è stato il Kerner di Manni Nossing, mentre il vincitore delle diverse prove a tema enologico che hanno coinvolto i commensali fra una portata e l’altra è stato il bravo socio Erik che si è portato a casa la partecipazione gratuita a uno dei prossimi appuntamenti con i vini di alto livello che la nostra associazione vuole far scoprire ai tanti appassionati.

Buon Natale a tutti!

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