Autoctoni questi sconosciuti

Una delle serate più emozionanti organizzate da Viva il Vino, così commentava il presidente Max Wine dietro le quinte a fine serata.                   E in effetti è stata una grande emozione il primo viaggio di Viva il Vino specificatamente dedicato al vasto ed articolato universo dei vitigni autoctoni italiani, una ricchezza ampelografica che ci rende unici tra tutti i Paesi produttori di vino. Si perchè nemmeno i vicini cugini d’Oltralpe possono vantare uno scenario come il nostro e nemmeno gli interessa farlo: loro danno più importanza al terroir, cioè al microcosmo in cui si va a vinificare, piuttosto che alla singola varietà di uva. Intanto cominciamo a dire di cosa stiamo parlando: per vitigno autoctono si intende una varietà coltivata in una certa zona da tempo remoto, che giunta anticamente dai luoghi di origine della vite si è adattata all’ambiente sviluppando propri caratteri specifici. Ma se oggi parlare di autoctoni è tanto di moda, per onestà va detto che non è sempre stato così, basti solo pensare che ad inizio anni Novanta fior di viticoltori espiantavano i vitigni autoctoni a favore di più promettenti varietà internazionali. E quindi è solo grazie a pochi produttori coraggiosi che hanno creduto nelle potenzialità delle varietà tradizionali se oggi appassionati e bevitori curiosi possono godere di un gran numero di chicche, distribuite più o meno uniformemente su tutta la penisola. Allora entriamo nel vivo della nostra piacevole degustazione che ci ha fatto attraversare l’Italia da Nord a Sud e scopriamo come ogni singolo territorio possa essere reinterpretato grazie anche ad alcune eccellenze che siamo andati a scovare appositamente al Vinitaly a cui è dedicato da tradizione il nostro appuntamento di aprile.

Si parte da uno spumante che buona parte della platea riconduce ad un metodo classico, non eccessivamente pungente nè marcatamente acido, note fruttate intense e piacevoli, un ottimo vino da aperitivo. Bollicina vellutata e raffinata che porta fuori strada: qualcuno azzarda Trento doc, ma quando il pulmino di Viva il Vino si ferma e scompare la stagnola dalla bottiglia, scopriamo di essere in provincia di Latina e per la precisione a Cori, pochi chilometri a Sud della più nota zona dei Castelli. E anche il vitigno è la prima sorpresa della serata: Bellone, detto anche Arciprete Bianco, recuperato con lungimiranza da Marco Carpineti che – sfruttando la natura vulcanica del territorio – ha riportato alla luce anche l’Uva Nera di Cori e il Greco Moro (non fatevi ingannare dal nome, è un vitigno a bacca bianca). Trattasi il Bellone di un vitigno impiegato in diverse delle Doc laziali anche dei vicini Castelli, ma che solo Marco Carpineti e pochi altri vinificano invece in purezza. Un brut millesimato 2011 che resta ventiquattro mesi in bottiglia sui propri lieviti prima della sboccatura e che noi abbiamo accompagnato ad un piattino di salumi. Quella di Carpineti è un’azienda che esiste da diverse generazioni, ma a cui Marco ha dato un grosso impulso, cercando giorno dopo giorno un equilibrio e un’armonia che partendo dalla vigna possano arrivare fino al nostro calice. Il viaggio nell’Italia autoctona prosegue con la degustazione di due vini bianchi che vengono serviti in contemporanea.                   I colori sono simili, con il secondo appena un po’ più dorato. Le diversità emergono invece al naso dove se nel primo vino troviamo sentori di pesca, nocciola e rosa, nel secondo le note sono più riconducibili ai cosiddetti profumi terziari. Qualcuno azzarda che potrebbe essere la stessa uva vinificata però in maniera differente, altri fanno riferimento a zone geografiche molto distanti, ma è evidente a tutti che sarà una serata dove “indovinare” qualcosa è praticamente impossibile. Nell’assaggio il primo dei due bianchi rivela una complessità gustativa superiore a quella olfattiva, con spessore di materia, morbidezza, equilibrio e persistenza. Una rotondità che il bravo Carlo lega ad un possibile passaggio in legno. Complessità che anche il secondo vino svela in bocca, dove una piacevole mineralità e una marcata acidità fanno pensare a una possibile ulteriore evoluzione negli anni, al contrario del primo vino che sembra essere stato stappato nel suo momento migliore. Dovendo scegliere il più emozionante, la platea si spacca quasi a metà, dando qualche punto in più al primo vino, quello più pronto, ma tanto apprezzamento va anche al piatto di fusilli con asparagi selvatici di campo e crema di gorgonzola servito in accompagnamento. Dando finalmente un nome ai due vini assaggiati, scopriamo che con il primo siamo a Coriano, primo entroterra collinare riminese. E’ il Podere Vecciano a vinificare Vignalaginestra annata 2012, quattordici gradi alcolici, da uve Rebola in purezza, dopo una vendemmia in epoca tardiva a metà ottobre e una fermentazione in barrique nuove a contatto con le fecce nobili per alcuni mesi.   Il nome del vino prende spunto dal periodo di imbottigliamento che avviene nel mese di maggio, epoca di fioritura delle ginestre. Alzi la mano chi aveva mai sentito parlare di Rebola, vitigno di cui si hanno tracce sul territorio fin dal 1400 e che Davide Bigucci ha rivalutato con uno stile di vinificazione che tende a dare caratteristiche di freschezza e bevibilità. Con buone probabilità la Rebola è fratello riminese del più noto Pignoletto coltivato sui Colli Bolognesi, che col tempo si è spinto fino al mare. E il secondo vino bianco? La platea è concorde nel dire che siamo più a Sud ed in effetti sugli schermi compare il panorama di Castel Campagnano in provincia di Caserta. E’ sul crinale delle colline fra questo piccolo comune e Caiazzo che si coltiva il Pallagrello Bianco, un’uva già conosciuta al tempo dei Borboni, ma che solo grazie alla passione e al lavoro di Peppe Mancini e della moglie Manuela Piancastelli oggi abbiamo il piacere di ritrovare nei nostri bicchieri. Un avvocato e una giornalista che concretizzano la passione per la terra e per il vino cominciando una nuova vita dedicata a salvare vecchi vitigni ormai abbandonati e diventandone di fatto gli ambasciatori nel mondo. Espressione del terroir e ricerca dell’eleganza, questa la filosofia che sta alla base della produzione di Terre del Principe, questo il nome dell’azienda. Le Serole – questo il nome del vino degustato – ha lo stesso tipo di vinificazione del vino precedente, stessa annata e stessa gradazione alcolica; proprio un bel confronto alla pari per questi due bianchi, che ha permesso di far emergere tutte le diversità legate invece al territorio e al vitigno. Siamo solo a metà serata, ma le emozioni sono già state tante. Ed eccoci pronti alla batteria dei rossi. Due calici molto diversi nel colore, il primo bicchiere è rubino scuro con riflessi granato, il secondo è di un violaceo intenso e non vi filtra la luce. Al naso il primo è espressione del fruttato per antonomasia con mirtillo e prugna in evidenza, succo di frutta allo stato puro, nel secondo, per confronto col precedente, emerge più marcata la componente vegetale e soprattutto speziata. Al gusto se da una parte abbiamo spessore di materia, morbidezza e invito a godersi un buon bicchiere di vino, dall’altra abbiamo più complessità e finezza. Molto interessanti i commenti fra cui Sergio che afferma “Il primo è bello da sentire e da gustare”, mentre Claudio sintetizza un pensiero comune: “Al primo impatto il primo vino mi piace di più ma il secondo mi emoziona maggiormente”. Se spostassimo l’asse sui vitigni internazionali è quasi come se avessimo da una parte un Merlot e dall’altra un Pinot Noir, grandissimi vini entrambi ognuno con caratteristiche però molto differenti. Ma veniamo al sodo, il quarto vino della serata è il vitigno autoctono per eccellenza del Molise, la Tintilia, recuperata con entusiasmo e caparbietà dal produttore Claudio Cipressi. La Tintilia, nome che deriva dallo spagnolo tinto (che vuol dire rosso), nel dopoguerra era stata espiantata a favore del più produttivo Montepulciano. Ma se per Hemingway il vino è uno dei maggiori segni di civiltà, per Claudio Cipressi è invece il segno distintivo per valorizzare la terra in cui è nato ed ecco quindi che noi possiamo gustarci questo Macchiarossa della vendemmia 2009 da 14,5 gradi alcolici… alla faccia del succo di frutta!   Dopo una vendemmia nella prima metà di ottobre il vino raggiunge il suo perfetto equilibrio sostando ventiquattro mesi in acciaio, senza necessità di passare in legno. Una piacevolissima scoperta che ricorda a tutti gli appassionati come anche nelle regioni che non ti aspetti come il piccolo Molise si possono trovare emozioni straordinarie nel bicchiere. E a proposito di territori che non ti aspetti, ecco che anche il secondo vino rosso ci porta in un’altra piccola ma sorprendente regione, la Valle d’Aosta e più precisamente a Quart dove i Fratelli Grosjean producono il così tanto apprezzato dalla platea Fumin, dallo specifico cru Vigne Rovettaz, dove le piante sembrano toccare il cielo. Vitigno Fumin, gli acini di questa varietà sono coperti da una tal quantità di pruina che appaiono quasi fumosi, in passato veniva usata più che altro per dare acidità e colore ad altri vini, anche perchè piuttosto difficile da coltivare. Come ci racconta Vincent Grosjean nel nostro  incontro mattutino al Vinitaly, questa uva bisogna lasciarla in vigna finchè si può… parametro non facile da calcolare se pensiamo che in questi luoghi la neve può arrivare ben prima del previsto! Stessa annata del vino precedente, tredici gradi alcolici, fermentazione e successiva maturazione in legno per questo Fumin che racchiude in sè tutte le belle tipicità dei vini di montagna. E per rimanere vicini a questi vini anche con i piatti, ecco in abbinamento la fontina valdostana e un caciocavallo della Basilicata. Il sesto vino che proponiamo è qualcosa di unico nel suo genere, ma prima di svelarne i retroscena procediamo con la degustazione. Platea concorde nel dire che al naso è suadente, mentre in bocca sono l’acidità e la tannicità ad emergere al primo sorso. Il passaggio in legno viene identificato dalla maggioranza, ma sono soprattutto certi sentori forse riconducibili al terroir che colpiscono. La sorpresa arriva quando viene svelato che stiamo assaggiando un vino prodotto da viti ultra centenarie addirittura di epoca prefillosserica!

Un patrimonio ampelografico unico al mondo che tre famiglie di Tramonti, incantevole borgo della Costiera Amalfitana, hanno deciso di salvaguardare fondando nel 2004 la Tenuta San Francesco. E’ una grandissima emozione lasciar parlare questo vino da uve Tintore chiamato dal produttore “E’ Iss” mentre sui monitor scorrono le immagini delle viti da cui proviene, dei veri e propri alberi con radici che vanno dai venticinque fino ai quaranta metri di profondità, sopravvissute grazie alla natura vulcanica dei terreni.

Il Tintore è un vitigno che tra l’altro solo da pochi anni è stato iscritto al registro ufficiale, dopo una lunga battaglia per tutelarne l’identità. Annata 2009, gradi alcolici tredici e mezzo, fermentazione in acciaio e due anni in botte grande per un vino che ci riporta indietro col tempo permettendoci di vivere un’esperienza gustativa unica. Possiamo capire fino in fondo e condividere la frase che l’eclettico e istrionico produttore Gaetano Bove ci ha detto al Vinitaly “Qui rappresento un vino tra i tanti, se venite in azienda vi renderete conto come in realtà il mio vino sia unico”. Andatelo a trovare, non vi pentirete della conoscenza di uno di quegli uomini che rientrano di diritto nella categoria dei “personaggi affascinanti” del vino. Chiudiamo in dolcezza con un calice color dell’ambra che emana sentori di mandorla e mette tutti d’accordo con un sorso che appaga i sensi. Quando il vino si fa poesia. E’ sul versante ionico della costa calabrese che siamo andati a scovare una delle rarità italiane più affascinanti, il Greco di Bianco. Vitigno clone della malvasia che ritroviamo nelle vicine Lipari, ha trovato in questa zona un habitat ideale rappresentato dalle marne bianche che, oltre a dare il nome al comune – Bianco è infatti il nome del paese -conferiscono al vino particolare eleganza. Basse rese che vengono ridotte ancora della metà dall’appassimento naturale al sole, un vero nettare degli Dei prodotto a pochi passi dal mare da Capo Zefirio, un’azienda fondata da tre amici che, dopo aver vissuto anni a contatto con i vecchi vignaioli del luogo, hanno deciso di continuare l’opera di salvaguardia di questo meraviglioso passito italiano. E quindi come si fa a non dire grazie a Cosimo Canturi, Francesco Isola e Giuseppe Vottari per essere fra quei pochi uomini che nell’assolato entroterra di Bianco, splendida località dove verrebbe più istintivo lasciarsi scivolare nelle turchesi e cristalline acque del greco mar …, hanno invece optato per un progetto di salvaguardia di uno dei più antichi, rari e pregiati vini d’Italia? L’abbinamento che Chef Vale ci propone è un tiramisù rivisitato con savoiardi bagnati nello zibibbo e scaglie di mandorle nella crema… Meglio di così non potevamo finire!

In chiusura la platea sceglie il podio delle emozioni:  il bronzo lo guadagna la Tintilia, l’argento il Fumin ed è oro per il Greco di Bianco.

Ma l’emozione più grande di questa serata è stata constatare che immenso patrimonio rappresentino i vitigni autoctoni italiani e quanti straordinari vini sconosciuti anche agli appassionati ne possano derivare. Un mondo che Viva il Vino, passo dopo passo, ha tutta l’intenzione di continuare a scoprire!

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